Il primo gennaio del 1963, nell’omelia tenuta nella chiesa parrocchiale di Opera, in diocesi di Milano, l’arcivescovo Giovanni Battista Montini salutò l’anno appena iniziato riflettendo sullo «spirito di novità del cristianesimo». Con «l’impressione di questa novità – affermò Montini – mi piace inaugurare l’anno che la Provvidenza ci apre ancora dinnanzi al cammino della nostra vita: 1963. Ecco, il tempo ancora ci è dato per attendere alle nostre prove e per preparare, in questa vita presente, il nostro destino futuro».
Il saluto ai seminaristi ambrosiani
In quel capodanno il cardinale Montini non immaginava quale importante novità l’invocata Provvidenza gli avrebbe riservato nel corso del 1963, iniziato da poche ore. Quando, nella primavera di quell’anno si aggravarono le condizioni di salute di Giovanni XXIII, l’oratoriano padre Giulio Bevilacqua, amico e confidente di Montini, prospettò all’arcivescovo di Milano la concreta eventualità di una sua elezione al pontificato, da tempo ipotizzata sulla stampa. La probabilità di succedere a papa Giovanni suscitava grande turbamento nell’animo del cardinale tanto che nel giugno del 1963, dopo la morte di papa Roncalli, visitando i seminaristi di Venegono e improvvisando una lunga conversazione con loro, l’arcivescovo parlò con franchezza dell’imminente Conclave e delle voci, sempre più insistenti, che lo riguardavano. «Cercate di non essere informati dai rotocalchi – raccomandava –. Non c’è niente di meno sincero, di meno interessante, direi di meno istruttivo, di questa stampa che rasenta davvero il disonesto per dare delle notizie impressionistiche. Non credete poi a quelle che dicono sul conto mio, perché sareste proprio addirittura presi in giro da questa brava gente che cerca di indovinare e fare pronostici». Il cardinale Montini, invece, in maniera quasi preveggente, confidava ai futuri sacerdoti di intravedere la possibilità che, dopo tanti secoli, la Chiesa tornasse ad avere un Papa straniero. «Se si dovessero fare pronostici, vi saprei dire io ben altre cose: una, per esempio, e terminiamo, che non c’è mai stata tanta probabilità come in quest’ora della Chiesa che il Papa non sia italiano. E non sarebbe niente di strano. L’ecumenismo porta a questo, non è vero? E forse l’ora è matura perché ci sentiamo fratelli con uno che non è della nostra lingua e della nostra Nazione. Ma sarà quel che Dio vorrà». E, sebbene l’arcivescovo Montini avesse chiesto ai futuri sacerdoti di pregare «di poterci presto rivedere», essi presentivano che quello sarebbe stato un definitivo commiato.
L’ultima cerimonia pubblica presieduta da Montini – la processione cittadina del Corpus Domini, che si svolse il giovedì 13 giugno – richiamò una folla numerosissima che sembrava accorsa, così come le autorità cittadine presenti in maggior numero del solito, quasi a salutare per l’ultima volta quell’arcivescovo in partenza che, come poi accadde, non sarebbe mai più ritornato a Milano.
L’accoglienza festosa degli altri cardinali
Pochi giorni dopo Montini partì per Roma, con la speranza di rientrare nella sua arcidiocesi, tanto da avere organizzato pure una visita privata in Irlanda, all’amico nunzio Antonio Riberi, prevista per i giorni successivi il Conclave. Ma fu a Roma, all’indomani del suo arrivo per l’ultimo novendiale, che la calorosa accoglienza di molti cardinali, i quali «gli si precipitarono attorno, salutandolo con una forma di vera amicizia ed entusiasmo», provocò in Montini un ancor più forte e intenso turbamento, per «il timore del pericolo di poter essere eletto Sommo Pontefice».
L’elezione e la scelta: mi chiamerò Paolo
Come presentito e supposto da molti il cardinale Giovanni Battista Montini fu eletto Papa nella tarda mattina del 21 giugno 1963. «Non c’è stato alcun antagonista» rivelò, tre giorni dopo, l’arcivescovo di New York, Francis Spellman a Giulio Andreotti, di cui era molto amico e, «all’annuncio del voto i cardinali hanno applaudito». Al politico democristiano, già membro della Fuci d’ispirazione montiniana, monsignor Antonio Travia, officiale della Segreteria di Stato (che era stato anche segretario di Montini negli anni Trenta), raccontò come l’arcivescovo di Milano – il quale durante la prima sessione conciliare era intervenuto solo due volte – «a tutti apparve un non esibizionista», che avrebbe fatto anche per il Concilio «cose chiare e nuova guida». Sempre il cardinale Spellmann riferì che il nuovo Papa, in Cappella Sistina, subito dopo l’elezione non fece alcun discorso, ma espresse solamente la sua accettazione, annunciando il nome prescelto: Paolo, che tornava ad essere il nome di un Pontefice dopo molti secoli. Un nome scelto, annotò papa Montini in un suo appunto, «per devozione all’Apostolo – primo teologo di Gesù Cristo – l’amoroso di Cristo – per ammirazione all’Apostolo-missionario, che porta il Vangelo al mondo, al suo tempo, con criteri di universalità, il prototipo della cattolicità».
Nei giorni successivi Paolo VI interpretò spiritualmente il momento dell’elezione, vergando alcuni appunti, conservati dal suo segretario: «Mi pare che i fatti erano più forti di me; e che in me vi fosse una sincera e tacita preghiera di essere risparmiato, ma insieme il proposito di non commettere viltà e di fare oblazione, ancora, della mia povera vita. […] Ora posso capire dall’infimità, a cui è sceso il disegno di Dio, due cose: l’umiltà (se così si può dire) di Dio, il Dio umile, come diceva sant’ Agostino. E la Madonna: “Ha guardato l’umiltà della sua serva”. E della mia bassezza a confronto di quella di Maria che dire? quali abissi! Ma così agisce il Signore: lo sguardo intenzionale anche sulla piccolezza infinitesimale! E allora? Allora una seconda scoperta: così ama Dio!»
Il primo incontro con il clero di Roma
Due giorni dopo l’elezione, il 23 giugno, ricevendo in udienza il clero romano, papa Montini proclamò solennemente che «il primo titolo della Nostra missione e della Nostra autorità è quello di essere Vescovo di Roma», la sua diocesi, alla quale Paolo VI avrebbe dedicato particolari cure e attenzioni, in quanto essa «omnium ecclesiarum caput et mater» ha più di tutte la vocazione al primato della fedeltà e della perfezione nella vita cristiana».
Dall’amore a Cristo e alla Chiesa (Ecclesiam Suam sarebbe stato l’emblematico titolo della prima enciclica, pubblicata nella festa della Trasfigurazione, il 6 agosto 1964), Paolo VI fu pervaso e guidato nel corso del suo pontificato, avviato nel giugno di sessant’anni fa in maniera sobria e pacata, fuggendo da fasti e personalismi. Anche l’appartamento pontificio suscitò nel Papa «un’impressione profonda, di disagio e di confidenza insieme», come scrisse Montini la sera stessa dell’elezione. Perciò pure la folla che lo attendeva in Piazza San Pietro per il suo primo Angelus apparve ai suoi occhi come «un immenso e commovente spettacolo», che lo spingeva però ad interrogarsi su cosa fosse «questo bisogno di vedere un Uomo?». «Siamo diventati spettacolo!», annotava Paolo VI in un altro appunto, per rispondersi che tutto questo «è segno, simbolo. “Non per noi Signore”».
Come ha ricordato papa Francesco il 14 ottobre 2018, proclamando la santità di Paolo VI, «sull’esempio dell’Apostolo del quale assunse il nome, come lui ha speso la vita per il Vangelo di Cristo, valicando nuovi confini e facendosi suo testimone nell’annuncio e nel dialogo» e «anche nella fatica e in mezzo alle incomprensioni, ha testimoniato in modo appassionato la bellezza e la gioia di seguire Gesù totalmente. Oggi ci esorta ancora, insieme al Concilio di cui è stato il sapiente timoniere, a vivere la nostra comune vocazione: la vocazione universale alla santità. Non alle mezze misure, ma alla santità».
Eliana Versace, Avvenire