Suicidi in carcere. Don Grimaldi: “Avere maggiore attenzione verso le situazioni di fragilità, ma i tagli delle risorse non aiutano”

Un fine settimana doloroso per le carceri italiane. Una detenuta si è lasciata morire nella sezione femminile del carcere di Torino: rifiutava cibo e acqua fin dallo scorso 22 luglio, giorno del suo arrivo in carcere dalla Sicilia, dove era avvenuto il suo processo. La donna, Susan John, 43enne, era madre di due bambini e residente a Torino. Stava scontando una pena per cui era previsto il termine nell’ottobre 2030. Sempre a Torino una giovane detenuta italiana, di 28 anni, Azzurra Campari, si è impiccata. Anche nel carcere di Rossano un uomo di 44 anni di Catanzaro è stato trovato morto e si ipotizza che si sia tolto la vita. Di questo agosto tragico in carcere parliamo con l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, don Raffaele Grimaldi.

Tre morti in una manciata di giorni…

Se non c’è un profondo ascolto di coloro che vivono in carcere situazioni difficili perché hanno problemi di salute, fisica o mentale, di solitudine, di abbattimento psicologico per la loro situazione personale, possono succedere drammi come quelli degli ultimi giorni.

L’unica risposta che si può dare è una maggiore attenzione a coloro che hanno questi problemi.

L’estate è un periodo difficile per i detenuti, ma questo è ben noto: non può essere più affrontato come un periodo di emergenza, bisogna programmare delle attività, una vicinanza particolare soprattutto nei reparti in cui si registrano le situazioni di maggiore fragilità. Dobbiamo continuamente dire questo, ricordarlo, chiedere un cambiamento su questo versante. Tragici gesti possono capitare anche in reparti in cui non si vivono particolari fragilità e apparentemente le persone stanno fisicamente bene: non possiamo mai sapere qual è stato l’ultimo pensiero che ha portato il suicida alla sua drammatica e terribile decisione.

Perché abbiamo tanti suicidi?

Non possiamo nascondere che con i tagli effettuati il personale nei penitenziari è dimezzato. Quando ci sono maggiori fragilità psicologiche in carcere l’aspetto sanitario andrebbe maggiormente rafforzato. Il taglio di tante risorse nelle carceri, invece, non ha favorito una presenza più forte di educatori e di medici e tutto ciò influisce sulle situazioni tragiche che si stanno effettuato in questo periodo nei penitenziari italiani.
Se pensiamo alla vicenda drammatica della detenuta di origini nigeriane che ha smesso di mangiare e bere probabilmente poteva essere evitata se ci fosse stato un maggiore supporto, una maggiore attenzione, se questa donna fosse stata ricoverata in ospedale. È stato un caso che poteva essere affrontato ed essere seguito diversamente. Ma non stiamo qui a colpevolizzare nessuno, perché quando avvengono tali tragedie facilmente le colpe ricadono o sull’uno o sull’altro, ma la realtà delle carceri è difficile e la viviamo quotidianamente sotto i nostri occhi.
Sicuramente l’estate è un periodo particolarmente duro per i detenuti e si possono verificare, purtroppo, gesti estremi, ma il carcere ha bisogno di uno sguardo e di un’attenzione tutto l’anno.

C’è una situazione generalizzata di sofferenza?

La realtà delle nostre carceri ha bisogno di essere affrontata con maggiore competenza e con maggiore responsabilità. Gli operatori che lavorano in carcere fanno del loro meglio, la Polizia penitenziaria fa tutto quello che è possibile fare, anche loro, mi si passi l’espressione, sono “prigionieri” come gli altri, per questo il mondo carcerario ha bisogno di essere aiutato, a partire dal problema del sovraffollamento, che è sulla bocca di tutti ma ancora non è stato risolto. Infatti, il sovraffollamento non aiuta a gestire bene la realtà delle nostre carceri, perché il personale è poco e le difficoltà sono molte.

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio è andato in visita nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino, dopo la morte delle due donne, e in quell’occasione ha parlato di “detenzione differenziata” tra “i detenuti molto pericolosi e quelli di modestissima pericolosità sociale” e di “una situazione intermedia che può essere risolta con l’utilizzo di molte caserme dismesse e che hanno spazi meno afflittivi”. Che ne pensa?

Questa potrebbe essere una delle soluzioni. Infatti, non possiamo pensare di offrire lo stesso sguardo sia per detenuti di alta sicurezza o del 41 bis sia per altri detenuti che hanno delle fragilità e che hanno commesso reati meno gravi, a volte condannati per cose futili. Il sovraffollamento potrebbe essere superato anche ripensando quali sono i veri crimini da considerare per la detenzione in carcere. Per reati lievi potrebbero essere ipotizzate soluzioni diverse come comunità, case di accoglienza, che potrebbero essere supportate come un cammino parallelo con il carcere. Dunque,

la differenziazione potrebbe essere una delle soluzioni per risolvere problemi oramai atavici delle nostre carceri.

Sempre a Torino Nordio ha parlato della necessità di “garantire l’umanità del detenuto e il trattamento rieducativo”…

Davanti alle tante difficoltà e a questi episodi tragici, a volte anche gli operatori si sentono scoraggiati e sconfitti, molte volte mettono tutte le loro forze ma hanno l’impressione di combattere contro i mulini a vento senza portare frutto. Per questo, c’è bisogno che i nostri istituti siano rivisti.

Ci sono carceri con una lunga storia, ma come si evolve il mondo fuori, così anche dentro c’è necessità di cambiamenti.

E questo lo capiamo anche se ci confrontiamo con altre carceri europee.

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