Il cammino verso il Giubileo è ricco di luoghi di ristoro, vere e proprie oasi di grande bellezza e contemplazione spirituale. La rassegna “Cieli Aperti” giunge al terzo appuntamento con quella che è una autentica e inedita sorpresa. Per la prima volta, a Roma, nella chiesa di San Marcello al Corso, sono esposti il capolavoro di Salvador Dalì, il Cristo di San Juan de la Cruz, e il disegno-reliquia tratteggiato dal santo carmelitano che l’ha ispirato con una singolare iconografia. È un’occasione irripetibile per guardare due opere, l’una specchio dell’altra, una molto grande, l’altra quasi minuscola, che ci conducono nella vertigine della contemplazione spirituale.
Nella chiesa di San Marcello al Corso, sull’altare maggiore, campeggia un grande drappo con le parole che Dio disse a san Giovanni della Croce proprio in quell’occasione: “Se vuoi una parola di speranza, fissa lo sguardo in Lui solo. Vi troverai più di quanto desideri”. E attraverso l’invito a contemplare il Crocifisso, anche l’esperienza giubilare diventa compiuta, accoglie la dimensione più profonda.
Giubileo, esperienza spirituale e culturale
Come ha affermato monsignor Rino Fisichella durante l’inaugurazione della mostra, “il Giubileo è un’esperienza spirituale che assume in sé anche l’esperienza culturale, formando due realtà unite, che conferiscono godibilità all’evento prossimo dell’Anno Santo, attraverso quella bellezza che incarna l’esperienza mistica che è l’incontro con Dio. La bellezza consente di vivere bene, perché eleva l’animo e lo spinge ad andare oltre”, conclude il pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione.
L’opera di Dalì è stata prestata dal Kelvingrove Art Gallery and Museum di Glasgow, mentre la reliquia del santo carmelitano proviene dal santo Monasterio de la Encarnación di Ávila.
Subito varcata la soglia della Chiesa di San Marcello, un diaframma che separa le voci e il traffico della strada dal silenzio dello spazio sacro, ci imbattiamo nell’architettura essenziale che accoglie l’allestimento, progettata dall’architetto Roberto Pulitani. Sembra di entrare in un sacrario dove siamo subito catturati dall’opera di Dalì, il Crocifisso sospeso nel buio. Ma ancor più veniamo calamitati da una teca rossa, in basso, dove c’è la piccola immagine disegnata con rapidi tratti a inchiostro su un pezzetto di carta, racchiuso dal giro d’oro del reliquiario. Occorre avvicinarsi il più possibile per distinguere il disegno particolarissimo: un Cristo in croce visto come dall’alto e di sbieco. Un punto di vista arditissimo, del tutto inedito nell’iconografia del tempo. San Giovanni della Croce, in spagnolo al secolo Juan de Yepes Álvarez (in spagnolo: Juan de la Cruz; Fontiveros, 24 giugno 1542 – Úbeda, 14 dicembre 1591) disegnò ciò che contemplò durante un rapimento mistico.
Salvador Dalì vide ad Ávila, dalle mani delle suore, questo schizzo di San Giovanni della Croce e ne rimase impressionato, così nel 1951 tradusse a suo modo quell’immagine.
Il curatore della mostra e autore del catalogo, don Alessio Geretti, ci accompagna alla piena comprensione dell’opera del pittore catalano, noto per le sue bizzarrie e per il suo animo tormentato.
“Con questo evento dal 13 maggio al 23 giugno a Roma, potremo ammirare il Cristo di Salvador Dalì, il Cristo di San Giovanni della Croce, come lui ha voluto che si chiamasse. Questo dipinto spettacolare, famosissimo, tra i più iconici al mondo che, come suggerisce nel titolo stesso, è legato all’esperienza mistica del santo carmelitano spagnolo Giovanni della Croce e a una sua visione mistica che lo portò, intorno al 1572, a lasciare traccia su un frammento di carta, rubato all’amica Teresa d’Ávila – tra santi si potevano anche fare dei piccoli furti d’amore. Giovanni tratteggiò la figura del Signore in croce, come lui lo aveva visto durante un’estasi, mentre il Padre gli parlava del grande dono d’amore di suo Figlio”, spiega don Geretti e continua raccontando che “Dalì, nel 1948, dopo il tempo del Natale, in una Ávila circondata dalle sue torri e benedetta dalla neve che scendeva, ebbe l’occasione di vedere questo piccolo frammento e, vivendo in quella stagione della sua vita, un profondo stravolgimento spirituale che gli fece riscoprire la bellezza della fede cattolica, decise di prepararsi a dipingere il suo Cristo e, quasi non osando mostrarne la bellezza che supera ogni immaginazione, si lasciò ispirare dal Maestro Giovanni della Croce, mostrandocelo dall’alto, in modo che non possiamo vedergli gli occhi. Però ne percepiamo la fisicità stupenda e perfetta”. Come modello, Dalì scelse lo stuntman e acrobata di Hollywood Russell Maurice Saunders, per dipingere, osserva Geretti, un “corpo da divinità greca, una sintesi di bellezza, di genio, di spiritualità, di mistero”.
Il segno sconvolgente della croce
Lo schizzo di San Giovanni della Croce mostra il Crocifisso schiacciato dal dolore. Il capo riverso, le braccia stirate, trascinate dal peso del busto, le mani trafitte da chiodi enormi. Non vediamo il volto. Anche Dalì dipinge Cristo come visto dall’alto, come lo vide il Padre. Anche qui non ne vediamo il volto. La croce è un solido pesante sospeso nel vuoto. Cristo non è inchiodato al legno, né c’è traccia di sangue. Non è semplicemente un modo “metafisico” di intendere il segno sconvolgente della croce. Per Dalì, Gesù “sceglie” di essere crocifisso. Il suo sacrificio non ha bisogno di essere trattenuto da uno strumento di tortura. La sua sofferenza è tutta nel peso che lo tira e lo trascina, che tende ogni muscolo del suo corpo.
L’unità dell’universo è Cristo
Il pensiero corre a un’altra crocifissione di Dalì, il Corpus Hypercubus del 1954, dove Cristo è preso dal basso, con un punto di vista ancora inferiore a quello della Vergine che lo sta guardando. Qui Cristo è sospeso nel vuoto e neppure sfiora una croce geometrica, l’ipercubo appunto, che è lo sviluppo tridimensionale e perfettamente geometrico del solido con l’allusione ai significati teorici del rapporto tra fede e ragione. Anche nel Cristo di Port lligat Dalì traccia composizioni geometriche, il triangolo equilatero ideale descritto dalla croce che si incunea verso il basso e il cerchio che tutto racchiude. Nel Manifesto mistico lo stesso Dalì spiega: “Prima di tutto nel 1950 vidi un sogno cosmico nel quale il quadro, che mi appariva a colori, rappresentava il nucleo dell’atomo. Questo nucleo assunse più tardi un significato metafisico, io vi vedo l’unità dell’universo: Cristo. Poi vidi il Cristo disegnato da san Giovanni dalla Croce. Costruii geometricamente un triangolo e un cerchio, il riassunto estetico di tutte le mie precedenti esperienze, e iscrissi il mio Cristo in questo triangolo”.
Un cartiglio su cui non è scritto niente
Don Alessio Geretti continua ancora mostrando come l’opera esposta a Roma sia “anche una forte indicazione di speranza, perché questo Cristo che pende sul mondo nel buio si offre con amore e garantisce che il mondo giunga a un porto di salvezza che noi vediamo in basso, nella veduta di Port lligat il luogo della creatività di Dalì ma che rappresenta anche il mondo intero che in questo luogo si riconosce”. Il paesaggio è infatti una baia tranquilla, soffusa di luce. Una barca è sulla battigia. Piccole figure alludono, chissà, a passi evangelici come l’apostolo che tira le reti, e sono anche citazioni di opere di pittori precedenti come Velasquez. Sono figure comunque inconsapevoli di ciò che sta accadendo oltre il cielo, dove inizia l’oscurità senza fine, eppure questi piccoli personaggi sono immersi nella grazia, nella luce della speranza. Don Geretti mostra altri particolari affascinanti del dipinto che ci inducono a riflettere, come il cartiglio sulla croce sul quale non è scritto niente, come se fosse una pagina su cui tutti invece hanno scritto, “perché tutta l’umanità ha partecipato alla crocifissione, al dolore di Cristo”.
Ispirato da Dio
Giovanni della Croce ha tratteggiato un’immagine stupefacente che come si è detto non ha confronti con l’arte del Cinquecento. Un disegno che fa pensare che non si tratti di estro artistico ma proprio di qualcosa che si è vista nella realtà e si è voluto fissare sulla carta. Don Geretti osserva che questo schizzo “è l’unica cosa che il santo carmelitano osò disegnare perché non era la sua arte, ma sicuramente il Signore lo ispirò, come quando scriveva la Salita al Monte Carmelo o altri versi nei quali raccontò, in modo artistico e toccante, il cammino dell’anima che cerca di giungere all’unione perfetta con Dio”, conclude il curatore della mostra.
La croce resta salda mentre il mondo gira
Nella chiesa di San Marcello al Corso, c’è un altro crocifisso particolare, molto caro ai romani e conosciuto in tutto il mondo. È quel Crocifisso miracoloso protagonista di molti eventi difficili della storia, prima di Roma, poi del mondo, quando Papa Francesco lo volle sul sagrato della basilica di San Pietro insieme alla Salus Populi romani in quella sera di marzo della Statio Orbis, durante la Pandemia. Per questo motivo per il terzo appuntamento di preparazione al Giubileo è stata scelta proprio questa chiesa. Un luogo dove la rappresentazione del crocifisso ricorre con potenza interpretando alla lettera il motto dei monaci certosini: Stat crux dum volvitur orbis, la “croce resta salda mentre il mondo gira”, tra guerre, ingiustizie e umane miserie.
Scoprire la via per arrivare a Dio
“Senza dubbio – riflette Geretti – questa è un’occasione per frequentare ancora di più la chiesa romana dove si venera il Crocifisso miracoloso e in generale un modo per invitarci a fissare lo sguardo su Cristo, come Giovanni della Croce suggeriva ai suoi lettori. Però è anche un modo per riscoprire la strada diretta e certamente impegnativa che lui indica per arrivare a Dio, che è quella di attraversare la notte. Non semplicemente una fuga dai bagliori stupidi e confusi di questo mondo, ma con lo stile dell’amante che, per unirsi all’amata sul talamo della loro tenerezza, di notte nudi si congiungono. È un invito ad amare Dio così intensamente e così appassionatamente da spogliarci per lui di tutto quello che ci impedisce di entrare completamente nella sua vita”.