Il cardinale Erdő: “La fede è la cosa più importante nella vita”

Erdo

“La fede è la cosa più importante nella vita, allora servire la fede degli altri, trasmettere la fede, insegnare la fede e soprattutto amministrarla nella liturgia, sono le cose più grandi nella vita”. Così il cardinale Peter Erdő, arcivescovo di Esztergom-Budapest, primate d’Ungheria, commenta la convinzione che ispirato la sua vocazione. In questa intervista con Radio Vaticana – Vatican News, il porporato racconta il suo personale cammino di fede, coltivato nella sua famiglia d’origine, nell’epoca del comunismo, e la devozione del suo popolo davanti alla Solennità dell’Assunta e alla Festa di Santo Stefano che in terra magiara si celebra il 20 agosto. Più della metà dell’Ungheria è cristiana, spiega, e dopo il regime comunista, la fede offre un seme di speranza in un’Europa che ha sempre più la tendenza di perdere le proprie radici.

Eminenza, fra pochi giorni l’Ungheria celebra la festa di Santo Stefano. Quali sono gli eventi principali in programma? E perché questa festa è così significativa?

Santo Stefano è stato il primo re cristiano del Paese. Durante il suo regno, 1000 anni fa, l’Ungheria è stata cristianizzata con metodi non duri, ma piuttosto di convinzione e di organizzazione. Santo Stefano significa anche l’unità dello Stato ungherese. Per questo non soltanto i cattolici credenti, ma tutti rispettano la sua figura e anche questa festa che è celebrata a livello nazionale. Quanto al programma, ogni anno la giornata comincia con un atto militare: i nuovi ufficiali prestano giuramento. Poi ci sono gli eventi dei politici e nel pomeriggio, quelli religiosi, quindi la Santa Messa davanti alla Basilica di Santo Stefano e poi la grande processione con la sua reliquia, la mano destra di questo primo santo re che è rimasta conservata. Dopo la processione nella tarda serata, ci sono sempre anche fuochi d’artificio. La giornata finisce come una festa popolare.

Come spiegherebbe ad uno straniero chi è santo Stefano per gli ungheresi? E perché è così diffuso nella chiesa il suo culto?

Per gli ungheresi in generale è il re, che aveva principi cristiani non soltanto per opportunità. È diventato cristiano come suo padre, il principe Géza, ma anche per convinzione personale. Quindi ha fatto tutto per rinforzare la cultura e la visione cristiana del mondo. In Ungheria questo comportava anche uno sviluppo economico e un nuovo rapporto con i popoli intorno a noi. Per questo, gli storici sono convinti che la sopravvivenza degli ungheresi come popolo dipendeva da questa grande decisione. Santo Stefano voleva che gli ungheresi entrassero nella grande famiglia dei popoli cristiani d’Europa. Era una grande decisione perché il re ha chiesto missionari, soprattutto dall’Occidente. Però durante la sua vita, l’Occidente e l’Oriente cristiano non erano ancora separate. Stefano è morto nel 1038, quindi prima dello scisma dell’Oriente. E perciò è venerato anche nella Chiesa ortodossa come santo e apostolo che ha convertito il suo popolo.

La figura di Santo Stefano ci riporta agli inizi della storia dell’Ungheria come Paese cristiano. In altri Paesi d’Europa questo legame con le proprie radici storiche, segnate dal cristianesimo, sembra che si stia perdendo. A volte queste radici sembrano persino contestate, rimosse o rinnegate. Lei cosa pensa di questa tendenza culturale?

Per noi rimane fondamentale l’enciclica Mit Brennender Sorge che Papa Pio XI in 1937 ha pubblicato prima della Seconda Guerra mondiale, in cui viene precisato che le nazioni come comunità culturali con la propria lingua, la propria memoria, le proprie strutture e la propria cultura, rappresentano un vero valore, appartengono alla ricchezza della creazione, quindi sono cari al Creatore. In diversi posti della Bibbia troviamo che anche nell’ultimo giudizio, il Signore giudicherà i popoli. Anche i popoli, non soltanto le singole persone. Quindi i popoli hanno un certo ruolo nel grande progetto di Dio. Eppure le nazioni non rappresentano il supremo valore. Guardando le nazioni così, sarebbe una idolatria, per cui cerchiamo sempre questo equilibrio indicato dall’insegnamento pontificio. E questo insegnamento sembra essere attuale anche ai nostri giorni.

In questo scenario, qual è il valore del celebrare la fede cristiana in modo pubblico e solenne, come nel caso di una festa come quella per Santo Stefano?

Pubblico e privato non sono separabili nella vita umana, nella vita delle società, perché le decisioni, anche private, possono avere una ripercussione alla società e viceversa. E poi lo spazio pubblico, le strade, le piazze, non rimangono mai vuote. Cioè non è possibile che non vi siano dei simboli che esprimono qualche visione del mondo. Anche durante il comunismo, c’erano tante statue, tante cose che esprimevano la visione del mondo comunista. In Albania, ad esempio, il dittatore Enver Hoxha aveva fatto costruire nel centro di Tirana per sé stesso una piramide. Quindi lo spazio pubblico non rimane completamente vuoto. E i simboli cristiani? Le chiese, per esempio, indicano che lunghe generazioni hanno riconosciuto che la vita quotidiana non è l’orizzonte supremo, ma c’è un orizzonte più alto che dà senso e valore alle piccole cose della nostra vita. Per cui è importante pensare ogni tanto almeno alle grandi feste, a questa realtà.

I giovani ungheresi di oggi forse non hanno vissuto le stesse difficoltà incontrate dalle generazioni precedenti, come la sua, nel vivere e testimoniare la fede in epoche in cui il potere politico avrebbe voluto estirpare il cristianesimo dall’identità nazionale. In quel periodo difficile, quando lei era giovane, cosa l’ha aiutata a non perdere, appunto, la fede?

Sono stati prima di tutto i miei genitori, la nostra famiglia, perché non soltanto pregavamo a casa, parlavamo delle feste religiose, andavamo insieme in Chiesa, ma mio papà ci ha trasmesso anche la catechesi. E poi abbiamo saputo che mio papà, essendo stato giurista, non poteva esercitare la propria professione perché era considerato troppo religioso. Mia mamma, insegnante, non poteva insegnare perché considerata troppo religiosa. E quindi abbiamo visto che cosa era più importante nella vita. Certamente la fede era al primo posto. E così che tutto questo non è stato vissuto in forma tragica dai miei genitori, ma in forma naturale, cioè nella naturalezza di credere che Dio è supremo. E che la religione è la cosa più importante nella nostra vita.

Ciò che lei racconta, che i suoi genitori erano cattolici e non lo nascondevano e che il regime comunista aveva proibito loro di esercitare la professione, cosa ha significato per lei? È stato un esempio? Ha avuto un ruolo quando ha accolto la vocazione al sacerdozio? Ci racconti anche di come lei ha scoperto la sua vocazione in un contesto simile…

Certamente. Se la fede è la cosa più importante nella vita, allora servire la fede degli altri, trasmettere la fede, insegnare la fede, e soprattutto amministrarla nella liturgia, sono le cose più grandi nella vita. Le cose più importanti che uno può fare e quelle più utili, anche per la salvezza degli altri. Questa è la motivazione principale che sentivo già da ragazzo. E così che man mano sono arrivato alla decisione di entrare nel seminario.

Papa Francesco ha voluto che quest’anno che precede il Giubileo fosse uno speciale Anno della preghiera. Come sta vivendo quest’anno?

La mia vita di preghiera è cominciata da quando frequentavo il liceo. Ho sempre iniziato la giornata con l’Inno della Carità dalla Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo e ho terminato la giornata pregando il Te Deum. Quindi la preghiera dava una cornice alle mie giornate. Il mio padre spirituale mi aveva raccomandato di meditare un po’ sulla Sacra Scrittura: non più di 10 minuti, sempre, ogni giorno. Un brano del Nuovo Testamento che è anche un grande aiuto per orientarmi nella vita in questo anno di preghiera che si svolge adesso.

Poi nella diocesi ci sono dei programmi personali, programmi comuni, il Rosario ogni primo sabato alle ore 10. E c’è una preghiera davanti alla Basilica di Santo Stefano, in piazza, dove gli uomini stanno in ginocchio e recitano così il Rosario, che è una grande testimonianza davanti al mondo. Poi nella Chiesa della Perpetua adorazione c’è ogni giorno, dalle 8 fino alle 18 l’adorazione. In un’altra chiesa, in quella dei Santi Angeli, tutta la giornata – anche di notte – c’è la adorazione perpetua. Ancora, ogni primo venerdì alle 6, nella parrocchia di Cristina, la Comunità Emmanuel organizza una serata di preghiera con la Messa e anche con la possibilità di confessione. Anche ogni giovedì, dalle 20 fino alle 5 del venerdí mattina nella basilica di Santo Stefano c’è l’adorazione. Poi le possibilità di confessarsi presso i francescani di Pest. Ogni giorno, dalle 6 di mattina fino alle 22, è possibile confessarsi. Infine ogni primo sabato, c’è un Rosario e una Santa Messa per le famiglie e la gioventù. Adesso cerchiamo di identificare anche le chiese nelle quali si potranno ottenere le indulgenze previste dalla Santa Sede.

Tornando un secondo a Santo Stefano, siamo quasi alla festa dell’Assunta e sappiamo che Santo Stefano aveva una grandissima devozione alla Madonna. Lei ha qualche augurio per questa Solennità? Ha qualche pensiero speciale per questi giorni?

Sì, Santo Stefano ha dedicato la sua corona e il suo Paese alla Madonna. È stata l’Ungheria il primo Paese che, secondo la tradizione, è stato consacrato alla Madonna e quindi la Madonna viene venerata in Ungheria come patrona del nostro popolo. È una gioia sapere che ci sono tanti altri popoli che nel frattempo hanno scelto pure la Vergine Maria come patrona propria, perché la stessa Madre può avere più figli.

di Deborah Castellano Lubov – Fonte: Vatican News

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