Pubblichiamo l’Introduzione del Card. Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente della CEI, alla sessione primaverile dei lavori del Consiglio Episcopale Permanente (Roma, 10-12 marzo 2025).
Cari Confratelli,
all’inizio di questa sessione del Consiglio Episcopale Permanente il nostro primo pensiero va a Papa Francesco. Durante l’Adorazione Eucaristica, che, come di consueto, apre i nostri lavori, abbiamo voluto unirci alle richieste che in questi giorni le Chiese in Italia e quelle sparse nel mondo hanno rivolto al Signore per il Pontefice. Una vera e propria catena di preghiera che è partita il 23 febbraio scorso e che continua a livello locale e universale.
L’affetto della Chiesa intera si è concretizzato infatti nella preghiera spontanea, che si leva dai credenti di tutto il mondo, e dal Rosario serale da Piazza San Pietro, che è diventato ormai un appuntamento popolare di fede e di attaccamento al Santo Padre. Qualcuno, ricordando la commovente e drammatica preghiera del 27 marzo 2020, quando da solo Papa Francesco pregò per il mondo intero, mi ha scritto che adesso è il mondo intero che si unisce nella preghiera per lui. In questa condizione di fragilità la sua figura diventa ancor di più motivo di comunione. «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). Lo ha confidato lui stesso: «Avverto nel cuore la “benedizione” che si nasconde dentro la fragilità, perché proprio in questi momenti impariamo ancora di più a confidare nel Signore; allo stesso tempo, ringrazio Dio perché mi dà l’opportunità di condividere nel corpo e nello spirito la condizione di tanti ammalati e sofferenti» (Angelus, 2 marzo 2025). Nella partecipe trepidazione per la sua malattia, emerge la testimonianza di amore a Cristo (cfr. Gv 21, 17-19) che passa dall’esercizio del suo ministero nel confermare i fratelli nella fede e nel presiedere la Chiesa nella carità. Il popolo cristiano lo ama e siamo colpiti dal fatto che pure non credenti e fedeli di altre religioni si uniscano all’invocazione per la sua salute, considerandolo un apostolo di pace e di spiritualità. Anche noi oggi, quindi, vogliamo far arrivare al Papa l’attaccamento e la preghiera dell’intera Chiesa in Italia, perché senta forte la nostra vicinanza filiale insieme con la consolazione del Padre buono, che sempre si prende cura dei suoi figli, soprattutto nei momenti più difficili della vita. Del resto, come egli stesso ha scritto ringraziando medici e operatori sanitari che lo hanno in cura, «abbiamo bisogno di questo, del “miracolo della tenerezza”, che accompagna chi è nella prova portando un po’ di luce nella notte del dolore» (Angelus, 9 marzo 2025).
Il tempo di Quaresima che stiamo vivendo favorisce un esame di coscienza e un rinnovato impegno a favore del Vangelo nella concretezza delle nostre Chiese. A questo scopo, quello cioè di accostare la riflessione con proposte possibili, vorrei mettere in evidenza quattro temi: Giubileo, Cammino sinodale, pace ed Europa.
Il Giubileo, esperienza di conversione
Siamo ormai nel vivo dell’Anno Santo. Tante persone stanno profittando di questo tempo favorevole per confrontarsi nuovamente con la buona novella del Signore Gesù, morto e risorto, e per vivere l’esperienza del perdono e della conversione: è questa l’ennesima possibilità per accostarsi al Signore con gesti concreti, a cominciare dal pellegrinaggio, e per crescere in fede, speranza e carità.
Perché questa opportunità non si riduca a una successione di celebrazioni esteriori, non possiamo dimenticare che il Giubileo, nella sua radice biblica, aveva una chiara connotazione spirituale e sociale. La normativa del capitolo 25 del libro del Levitico aveva come obiettivo di porre un argine all’avidità e alla grettezza del cuore. Nessun debito è per sempre: ma soprattutto nessuno deve restare schiavo per tutta la vita (cfr. vv. 25-28). Riconoscersi fratelli significa consentire a chi è in difficoltà economica o sociale di tornare ad avere la dignità che è propria di ogni persona. La stessa logica si applica alla terra: non la si può sfruttare in modo intensivo, senza consentirle di riprendere le energie necessarie a dare frutto a suo tempo. La terra non è nostra: è di Dio e va trasmessa al meglio alle generazioni future.
Nelle parole di Gesù presso la sinagoga di Nazareth, «l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,19) si rende presente. La cura dei poveri, la liberazione dei prigionieri, la vista a chi vaga nelle tenebre dell’errore e della sofferenza diventano la ragione della missione di Gesù: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21). I discepoli ereditano questa missione del Maestro.
Tali linee sarebbero già sufficienti per tracciare un programma pastorale delle nostre Chiese, in cui il Giubileo spinge a mettere al centro la memoria grata dei doni di Dio e il rispetto della persona umana e del creato, dei fratelli, soprattutto i più fragili. A ciascuno di noi Pastori è dato lo spazio di inventiva per dare vita a gesti concreti, che incarnino questo spirito giubilare. Sarebbe un programma attraente per tanti, che ci vedrebbe peraltro in dialogo con le persone di buona volontà che non vogliono cedere alla logica della sopraffazione e dello sfruttamento delle persone e della terra. I segni dei tempi, che racchiudono l’anelito del cuore umano, bisognoso della presenza salvifica di Dio, chiedono di essere trasformati in segni di speranza.
Papa Francesco nella Bolla di indizione del Giubileo ne indica alcuni, tutti decisivi. Ricordiamo, in particolare, quello dei detenuti, che «privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto» (Spes non confundit, 10). Rinnoviamo la sua richiesta di iniziative che restituiscano speranza, come forme di amnistia o di condono della pena, volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società, ma anche percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un reale impegno nell’osservanza delle leggi. È una sollecitazione che coinvolge, in primo luogo, le nostre comunità cristiane chiamate a una rinnovata creatività e generosità per quanti sono pellegrini di speranza con noi.
Verso la Seconda Assemblea Sinodale
Chi ha avuto la possibilità di partecipare alla Prima Assemblea Sinodale (15-17 novembre 2024) ha vissuto un’esperienza di Chiesa e di comunione. Il mio ringraziamento va a chi, a cominciare da S.E. Mons. Erio Castellucci e Mons. Valentino Bulgarelli, dalla Presidenza del Comitato del Cammino sinodale, dall’Ufficio giuridico della CEI fino ai referenti diocesani, stanno lavorando in sinergia sui tanti aspetti di merito e di metodo. Si tratta di un lavoro corale, che è già in sé un esercizio sinodale. Nonostante le inevitabili fatiche, il cammino di questi anni ci sta insegnando anzitutto un metodo ecclesiale, fatto di condivisione, partecipazione, pazienza e visione profetica. In un mondo che cerca facili e rapide soluzioni e che tende a delegare ad un singolo le scelte che ricadono su tutti, in un mondo che ha come registro l’ignorante e rozza polarizzazione, l’esibizione della forza come metodo per risolvere i problemi, la tentazione di scalare le classifiche per salvarsi quando sappiamo che questo avviene solo tutti insieme, il Cammino sinodale sta raccontando una possibilità diversa: quella di leggere e capire la realtà e di decidere insieme, nelle varie ma complementari responsabilità, ciò che è meglio per il futuro di tutti e che è chiesto a tutti.
In queste settimane le Diocesi si sono confrontate con lo Strumento di lavoro: le sintesi pervenute hanno mostrato l’impegno profuso e hanno offerto un riscontro utile per i prossimi passi. Di certo, constatiamo una forte aspettativa: non possiamo deluderla. Guardiamo adesso alla Seconda Assemblea Sinodale (31 marzo-3 aprile 2025), che discuterà tra l’altro le Proposizioni che sintetizzano le scelte per un rinnovamento della Chiesa. Da qui scaturirà il Documento finale, che sarà presentato all’Assemblea Generale di maggio (26-29 maggio 2025). Nel suo complesso, questa resta una sfida anzitutto per noi Vescovi: siamo chiamati ad una responsabilità storica, che consiste nell’accogliere quanto è emerso in questi anni e nel concretizzarlo in scelte pastorali incisive. Comunione e missione!
Nessuno si illude che un documento possa da solo imprimere una svolta alla vita delle nostre Chiese. Non sono gli eventi celebrativi o i testi in sé ad incidere: sono le persone con le loro motivazioni, le loro visioni e le loro scelte ed è la passione verso quei campi che già biondeggiano e che continuano a suscitare la compassione e la speranza di Cristo. La dimensione missionaria della Chiesa di domani, che sta emergendo sempre più chiara dal Cammino sinodale, ci invita a vivere queste settimane e i mesi a venire come un tempo di scelte coraggiose quanto necessarie per le nostre comunità, sempre tenendo presente tutta la città degli uomini.
La pace ha bisogno di dialogo
Il mondo si trova immerso nella tragedia della guerra. «È troppo sognare che le armi tacciano e smettano di portare distruzione e morte? Il Giubileo ricordi che quanti si fanno “operatori di pace saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9). L’esigenza della pace interpella tutti e impone di perseguire progetti concreti» (Spes non confundit, 8).
Mentre va scomparendo la generazione che ha vissuto l’ultima Guerra Mondiale con il suo carico di odio e di dolore, rischiamo di perdere una memoria sana di quegli eventi e delle loro vere cause. La logica del più forte sembra prevalere e quasi diventa affascinante e accettata in modo acritico. La Chiesa, invece, resta fedele a quanto la tradizione di secoli ha insegnato e il Vaticano II ha ribadito: «Iddio, che ha cura paterna di tutti, ha voluto che tutti gli uomini formassero una sola famiglia e si trattassero tra loro come fratelli» (Gaudium et spes, 24). È il tema dell’Enciclica Fratelli tutti. Questo non sembra il tempo in cui si condivide la coscienza di essere un’unica famiglia e, purtroppo, non ci si tratta da fratelli. Anzi ci si tratta da nemici e ci si esercita nell’arte della guerra più che in quella del dialogo. Il sogno, che nasce dal Vangelo di Gesù, è che i popoli e le persone formino un’unica famiglia e che si trattino da familiari.
Siamo in un momento internazionale delicato. Trepidiamo per la situazione in Medio Oriente e temiamo per la fragile tregua su Gaza. Bisogna che tutti rispettino gli accordi. Ci viene da Papa Francesco un grande insegnamento: non dimenticare il dolore. Ci sono guerre all’interno di un popolo, come in Sudan, nel nord del Congo e, nelle ultime ore, in Siria, paesi – tra l’altro – in cui l’impegno ecclesiale italiano è importante. Seguiamo con trepida attenzione quanto avviene in Ucraina, sottoposta a bombardamenti e attacchi sistematici. Ogni giorno le sirene rompono le notti che vorremmo tranquille per tutti, specie per i bambini e i malati, tra cui tanti feriti e mutilati. Guardiamo con attenzione e speranza al possibile dialogo tra Ucraina e Russia, mentre auspichiamo che questo possa segnare una nuova stagione per tutti quei Paesi – tra cui Stati Uniti, Europa e Cina – che, a vario titolo, sono coinvolti nella ricerca della pace. Finalmente si muovono passi per la pace! Questa ha bisogno di dialogo, come ha sempre chiesto Papa Francesco con commovente insistenza. Troppo si è disprezzato il dialogo tra governi, mentre le sedi internazionali d’incontro sono state svuotate di significato e prestigio, a partire dall’ONU. La parola è decisiva. Il linguaggio, quello internazionale e quello della comunicazione, è divenuto molto duro, aggressivo, mirando a colpire o screditare più che a creare le basi del dialogo. Parole come armi e parole senza o con poca verità. È molto importante, a proposito, il discorso del Papa ai membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede per la presentazione degli auguri per il nuovo anno. «Laddove – ha affermato tra l’altro – viene a mancare il legame fra realtà, verità e conoscenza, l’umanità non è più in grado di parlarsi e di comprendersi, poiché vengono a mancare le fondamenta di un linguaggio comune, ancorato alla realtà delle cose e dunque universalmente comprensibile. […] Il racconto biblico della Torre di Babele mostra che cosa succede quando ciascuno parla solo con “la sua” lingua» (Discorso, 9 gennaio 2025). Qui le radici della crisi della diplomazia e del dialogo, necessario per fare pace: vincere la babelizzazione dei linguaggi, frutto dell’egocentrismo nazionale, personale e di gruppo. Ho sperimentato con gioia come un cristiano, che parla un linguaggio sincero, ascolta e cerca di capire l’altro, può aprire una strada laddove si pensava di trovare un muro. Lo si sperimenta anche nella vita di ogni giorno, di fronte a situazioni presentate come difficili o irrisolvibili. Talvolta siamo pessimisti, ma il cristiano ha in sé, nelle sue parole e gesti, una potenziale grande capacità di pace e di bene.
Promuovere una cultura di pace
Sono convinto, che in questo mondo globale o post-globale, quanto avviene negli scenari del mondo è connesso agli scenari quotidiani e ha una ricaduta su di essi. La globalizzazione, attraverso mille modi, forma e deforma. I messaggi di violenza, le immagini di guerra, l’esaltazione della forza o del vincente, il disprezzo per il debole hanno effetti sulla mentalità e i comportamenti. Talvolta i giovani, deprivati di modelli e maestri, sono recettori indifesi di questo modo di vivere.
Le Chiese, che nascono e crescono nell’ascolto, anche nell’umiltà della vita delle nostre comunità, sono generatrici di donne e uomini di pace, perché gente che vive di ascolto della Parola di Dio e che pratica il dialogo. La Quaresima, che ci richiama alla conversione, mostra che si può essere migliori e che nessuna malattia dello spirito è inguaribile. La Chiesa, tra la preghiera, la vita comunitaria e la solidarietà, forma donne e uomini, vere risorse per la società, segnata da solitudine, competizione, conflittualità. La predicazione, l’educazione, la cura delle persone, non sono una goccia perduta nel mare, ma formano uomini e donne di pace, «come un albero piantato lungo un corso d’acqua […] nell’anno della siccità non si dà pena, non smette di produrre frutti» (Ger 17,8). La Chiesa non lavora per sé. Formare cristiani spirituali e responsabili non è compito confessionale, ma è nostro dovere e soprattutto servizio al mondo, anche a chi non crede o professa altre religioni.
Bisogna avere consapevolezza che diverse iniziative sono in corso e tante personalità e figure carismatiche crescono o possono crescere nei nostri ambienti e si abbeverano in tanti modi alle fonti della fede. Ricordo ciò che disse il card. Ratzinger, a Subiaco, alla viglia della morte di Giovanni Paolo II, grande costruttore dell’Europa: «Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo… Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio imparando da lì la vera umanità. Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini» (conferenza tenuta il 1° aprile 2005).
Dobbiamo essere grati a tanti sacerdoti, consacrati e consacrate, educatori, catechisti, laici e laiche impegnati, che si dedicano silenziosamente e tenacemente alla crescita e all’animazione dei cristiani, ponendo le premesse di un’umanità migliore. Li ringraziamo per il servizio non protagonista, che forma persone generose e responsabili. Essere padri e madri non è mai protagonismo ma generatività. Gaudium et spes, di cui celebriamo nel 2025 i sessant’anni, vedeva lontano perché chi è illuminato dal Vangelo alza gli occhi, scruta e capisce il presente libero da compulsività e interessi immediati. Si esprimeva così: «È in pericolo, di fatto, il futuro del mondo, a meno che non vengano suscitati uomini più saggi» (Gaudium et spes, 15). La nostra risposta non è ideologia, ma uomini e donne viventi che credono e amano. È anche la risposta di fronte alle nuove tecnologie e alla questione dell’Intelligenza artificiale: «L’epoca nostra – continua il testo conciliare -, più ancora che i secoli passati, ha bisogno di questa sapienza per umanizzare tutte le sue nuove scoperte» (Gaudium et spes, 15). Bisogna suscitare uomini saggi, portatori di una cultura piena di umanità capace di resistere a una cultura aggressiva, competitiva, egocentrica, “predicata” in modo martellante dalla macchina della propaganda.
Il beato Giuseppe Girotti, morto martire a Dachau nel 1945, biblista di vaglio, amico dei poveri, arrestato perché nascondeva gli ebrei, così predicava nel lager nazista prima di morire: «La Chiesa fu, è e sempre sarà l’unico rifugio del senso di umanità, di amore e di misericordia; rifugio della verità, dei principi della retta ragione, della civiltà e della cultura». Questa è la Chiesa, risorsa e speranza dell’umanità! Essere cristiani, con la propria vita, sostiene e protegge l’umanità a tutti i livelli: dalla famiglia, alla vita, alla politica e alla società, al mondo del lavoro, alla vita internazionale.
Investire nel cantiere dell’Europa
Questo popolo non solo prega per la pace e la chiede con forza, ma anche pensa al post-guerra: se vuoi la pace, prepara la pace! È questo il vero investimento di cui oggi abbiamo bisogno. Nel 2023 nel monastero di Camaldoli, celebrando il Codice (che tanto contribuì alla rinascita democratica) dicevo (scuserete l’autocitazione): «Pio XII chiese ai cattolici di uscire dalla loro passività e di prendere l’iniziativa. La responsabilità è iniziativa, altrimenti ci si accontenta delle proprie ragioni o dei buoni sentimenti, questi diventano vano compiacimento e non umiliandosi con la vita concreta fanno illudere di essere dalla parte giusta anche se si finisce fuori dalla storia!» (Prolusione, 21 luglio 2023).
È molto diversa oggi la situazione dei cattolici da quella del 1943, ma c’è la tentazione di accontentarsi delle proprie buone ragioni e dei propri buoni sentimenti, magari limitandosi a rimettere in ordine la “casa” con qualche sistemazione strutturale o accorpamento. Direi con i neologismi di Francesco: è l’ora di primerear e non di balconear. C’è un’iniziativa da prendere: «In questa prospettiva, sarebbe importante – sottolineavo – una Camaldoli europea, con partecipanti da tutt’Europa, per parlare di democrazia ed Europa. I padri fondatori hanno avuto coraggio, rompendo con le consolidate logiche nazionalistiche e creando una realtà mai vista né in Europa né altrove» (Prolusione, 21 luglio 2023).
Abbiamo visto entusiasmo a Trieste, alla Settimana Sociale, nel prendere l’iniziativa nel senso della pace, dell’Europa, della democrazia. Mi pare che, nei nostri ambienti, specie tra i giovani, ci sia voglia di dare un contributo in linea con il Vangelo, la nostra storia, il pensiero sociale della Chiesa. È il momento!
Ottant’anni fa, il 9 maggio 1945, finiva la Seconda Guerra mondiale sul suolo europeo. Data da ricordare e che fa pensare. Anche perché il fantasma di una nuova guerra mondiale si è aggirato negli ultimi anni e il Papa l’ha denunciato. Quella guerra è stata il frutto della follia nazionalista della Germania nazista e dell’Italia fascista. Oggi il male del nazionalismo veste nuovi panni, soffia in tante regioni, detta politiche, esalta parte dei popoli, indica nemici. Il suo demone non è amore per la patria, ma chiusura miope ed egoistica, che finisce per intossicare chi se ne rende protagonista e le relazioni con gli altri. Mons. Roncalli, nel 1940, a Istanbul, meditava sugli scenari del mondo segnati dalla Guerra mondiale nel Giornale dell’Anima: «Il mondo è intossicato di nazionalismo malsano, sulla base di razza e di sangue, in contraddizione al Vangelo». Soprattutto su questo punto, che è di bruciante attualità, «libera me de sanguinibus, Deus». E qui torna bene l’invocazione: «Deus salutis meae»: il Salvatore Gesù, che morì per tutte le nazioni, senza distinzione di razza e di sangue, divenuto primo dei fratelli della nuova famiglia umana, costituita sopra di lui e sopra il suo Vangelo.
Il nazionalismo è in contraddizione con il Vangelo. Per questo i Padri fondatori dell’Europa presero l’iniziativa dell’unificazione europea. L’Europa è una terra arata dal cristianesimo. Non rivendichiamo un’Europa confessionale, ma da credenti siamo a casa nostra nel processo europeo e vogliamo dare il nostro peculiare contributo sull’esempio dei Santi Cirillo e Metodio per un’Europa che può respirare bene solo con i due polmoni. Dobbiamo investire nel cantiere dell’Europa, che non sia un insieme di Istituzioni lontane, ma sia figlia di una lunga storia comune, sia madre della speranza di un futuro umano, non rinunci mai a investire nel dialogo come metodo per risolvere i conflitti, per non lasciare che prevalga la logica delle armi, per non consentire che prenda piede la narrazione dell’inevitabilità della guerra, per aiutare i cristiani e i non-cristiani a mantenere vivo il desiderio di una convivenza pacifica, per offrire spazi di dialogo nella verità e nella carità. Guardiamo con interesse lo sforzo del Governo italiano nel suo intento di connettere la crescita di responsabilità europea al dialogo intra-occidentale per la ricerca di una pace giusta e duratura e l’indispensabile visione multilaterale nella soluzione dei conflitti.
Nel grande confronto globale, solo un’Europa unita può preservare l’umanesimo europeo. Diversi sono i modi di intenderlo, ma è la ricchezza dell’Europa, con la centralità della persona. Questo è un nodo centrale, nonostante visioni relativistiche e individualistiche vorrebbero far perdere la memoria del Vecchio Continente. Lo ha ben spiegato Papa Francesco a Strasburgo durante la visita al Parlamento europeo, richiamando il magistero della Chiesa sul tema. «Promuovere la dignità della persona – ha ricordato – significa riconoscere che essa possiede diritti inalienabili di cui non può essere privata ad arbitrio di alcuno e tanto meno a beneficio di interessi economici» (Discorso, 25 novembre 2014). È l’umanesimo della dignità di ognuno nei suoi legami sociali e familiari. Non la persona isolata, come titolare di diritti che si espandono attorno all’io, in modo avulso dagli altri e dalla tradizione. Scriveva Mounier, un autore caro agli estensori del Codice di Camaldoli: «Il noi segue l’io poiché uno non si forma senza l’altro, il noi deriva dall’io». Persona e comunità si esprimono nella cura e nei legami: la vita nascente, i fragili, gli anziani tanto emarginati. La libertà della persona è anche servire gli altri. Non mi dilungo in questo sentire cristiano. Non me ne vergogno certo! Anzi, in questi momenti, abbiamo bisogno di pensieri forti e di credenti capaci di cultura e dialogo. Forte non vuol dire prepotente o intollerante. Ciò che soffriamo in Europa è la mancanza di pensiero a tanti livelli: si urla ma non si propone pensando.
Aveva ragione Paolo VI nella Populorum progressio: «Il mondo soffre per mancanza di pensiero» (n. 85). Invitava a pensare insieme il futuro: «Aprite le vie che conducono, attraverso l’aiuto vicendevole, l’approfondimento del sapere, l’allargamento del cuore, a una vita più fraterna in una comunità umana veramente universale» (n. 85). È la linea di quelle “coalizioni” culturali, educative, filosofiche, religiose, che Papa Francesco propose nel 2016 ricevendo il Premio Carlo Magno: «Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro» (Discorso, 6 maggio 2016). È anche quell’«alleanza sociale per la speranza» (Spes non confundit, 9) che chiede alla comunità cristiana di non essere seconda a nessuno nel sostenerla. Sì, non dobbiamo temere il confronto. Abbiamo una ricchezza di visioni, maturata negli anni, che sono fonti di speranza. La via della pace è sempre quella del dialogo, che oggi assume anche i connotati del multilateralismo. L’indebolimento delle strutture internazionali diventerà presto per tutti causa di maggiore incertezza e non certo di maggiore sicurezza. Senza luoghi in cui dialogare in modo sincero e costruttivo, le singole posizioni si irrigidiscono e tendono ad imporsi con la violenza. Anche su questo la Chiesa può tornare ad essere maestra di umanità. Mi piacerebbe che le nostre Chiese dessero vita ad iniziative o esperienze concrete in questi ambiti, per mostrare a noi stessi e al mondo che il Vangelo è ancora vita, una vita bella per tutti.
Ci aiuta Papa Francesco: «Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza… Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto… Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano… di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande… Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia» (Discorso, 6 maggio 2016).
Carissimi Fratelli, vi ringrazio di avermi ascoltato e di quanto vorrete osservare e proporre. Affidiamo queste giornate di lavoro comune all’intercessione della Vergine Maria e di San Giuseppe, che celebreremo nei prossimi giorni.