Emergenza freddo, prioritario dotare le città di strutture di primissima accoglienza

Emergenza Freddo

di Giustino Trincia *

Se davvero la priorità è la vita umana, questo significa che la prima cosa da fare è dare un tetto, un letto, dell’acqua calda, un servizio igienico e un pasto ai senza dimora, insieme ad un po’ di calore umano che sta tutto nella delicatezza dell’accoglienza.
Quello di cui sto parlando ovviamente non è sufficiente di fronte ad un fenomeno in crescita e annoso ma resta il primo indispensabile passo da compiere. È un gesto concreto, immediato, ma Gesù di Nazareth questo faceva e questo ci insegna a fare, nel mentre ci ricorda la beatitudine che circonda i promotori di giustizia, di coloro cioè che accanto al gesto immediato di tendere la mano, di soccorrere chi sulla strada sta soccombendo, si preoccupano anche di rimuovere le cause di sofferenza e di umiliazione di ogni essere umano.
I senza dimora non sono la causa ma l’effetto di molteplici problemi, certamente non semplici da affrontare, che per troppi anni, decenni, non sono stati né affrontati, né tantomeno risolti.
Non vi è alternatività o contrapposizione tra i due piani su cui occorre intervenire contestualmente, quello della convivenza civile e quello dell’accoglienza, quello della sicurezza e quello del reinserimento sociale delle persone che quasi sempre non hanno scelto ma hanno subito l’unica soluzione loro rimasta, quella cioè di (tentare) di dormire per la strada o in condizioni di massima precarietà.
Se una casa va a fuoco, la priorità, nell’immediato, è spegnere l’incendio e non disquisire sui perché e sul come sia accaduto.
Adesso che l’inverno è arrivato, la priorità è dotare le città di strutture di primissima accoglienza, per mettere a riparo le persone ed evitare che ne continuino a morire altre, in questo stillicidio che la cronaca registra e che la quasi assuefazione dell’opinione pubblica a questi tragici eventi, spinge a relegare le notizie ai margini dei canali informativi.
Insieme a questo è indispensabile ascoltare queste persone, conoscerle, sapere che storie hanno, che relazioni, capire di quali risorse dispongono, come dare loro l’accesso alle cure sanitarie e, sempre più frequentemente, all’assistenza per i disturbi mentali o psichiatrici, quali percorsi sono possibili per il loro eventuale reinserimento sociale e lavorativo.
Ascoltandoli scopriremmo che sono portatori di conoscenze, di suggerimenti, di proposte, a cui attingere per affrontare insieme a loro le dolorose e spesso complesse situazioni in cui sono precipitati.
Occorre poi disporre di strutture, possibilmente di limitate dimensioni, per una prima accoglienza che accompagni queste persone per alcuni mesi, fino alla possibilità di portarle a vivere in condizioni di semi autonomia, prima e di autonomia poi. Qui allora è indispensabile poter contare su di un adeguato patrimonio edilizio pubblico e privato (cari amministratori, battete un colpo se ci siete!), da predisporre allo scopo, potendo contare su personale professionale e volontario qualificato che è indispensabile per seguire queste persone che spesso potrebbero e vorrebbero potersi rialzare e ripartire.
L’errore da evitare in assoluto è voler nascondere il volto, le storie, le cause dei percorsi che conducono alla strada, ai giardini, ai parchi, alle stazioni, come “residenze” spesso terminali della loro vita.

L’errore, una pura ipocrisia, sarebbe quello di chiuderli in nuove “riserve indiane”, purché lontane dai riflettori perché rovinano gli affari, pensano in molti.
Ma è complicato! Dove troviamo i soldi per tutto questo?
Certo che è complicato, certo che ci vogliono risorse ma è possibile rispondere e bene a queste esigenze se ci si lavora tutti insieme, ognuno per la sua parte, come singoli e come comunità di ogni tipo; come associazioni di volontariato e come istituzioni; come rappresentanti eletti e come esperti, specialisti ed operatori. Il tema è l’integrazione delle risorse, delle competenze, delle disponibilità, possibile solo se c’è comunione di visione e di intenti.
Mentre scrivo queste righe, sono colmo di gioia perché finalmente dal 18 gennaio sera, grazie alla collaborazione tra Municipio X di Roma e Caritas diocesana di Roma, con tutte le Parrocchie di quella parte del litorale romano, sono stati resi disponibili 15 posti letto per i senza dimora e questo grazie anche alla Croce Rossa Italiana che ha messo a disposizione tre tende attrezzate.
Il numero è limitato ma, in attesa dei veri interventi necessari perché l’emergenza dura tutto l’anno, almeno si potranno salvare parecchie vite umane e dare speranza e fiducia che ci si può anche non arrendere e darsi da fare, come volontari, come operatori, come amministratori pubblici, come sacerdoti e operatori pastorali, per testimoniare il valore assoluto della vita umana.

* diacono, direttore della Caritas diocesana di Roma (agensir)

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